Diario pre Juve-Napoli parte 4° – Juvefobia e la leggenda di Giggino Maradona

-1 a Juve Napoli.

JUVEFOBIA

Oggi parliamo di JuveFobia.

Essere Juventini a Napoli è come essere un po’ ricchioni, perché hai un amore “diverso” e ti piace prenderlo in quel posto dai Padroni del Nord razzisti. E’ come essere un po’ disabili, perché non sei capace di lottare e di soffrire per arrivare alle gioie del calcio e ti piace vincere facile. E’ come essere mariuoli (eh beh). Di sicuro è come avere un altro colore -il bianconero- tatuato sulla pelle. Insomma, i napoletani sono -siamo- uno dei popoli più accoglienti, calorosi, ospitali e meno razzisti e discriminatori di sempre, tranne che sul calcio. Su quello sono assolutamente integralisti, talebani e razzisti al contrario. Sono tutti juvefobici: puoi essere simpatico, accettato, benvoluto, amato, ma “semp juventin rimani!”.

In qualità di diverso ed “infettato” lo juventino non deve, soprattutto a Napoli, trasmettere il morbo ai figli, tant’è che subito dopo essere diventato papà, il tifoso bianconero viene accolto con: “Auguri! Ma mo’ pure a tuo figlio ci devi passare sta cosa?”.

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Per carità, si scherza. Teniamo lontane le vere discriminazioni ed angherie della vita, ma il punto è che l’essere bianconeri -a Napoli- può davvero cambiare il corso della vita. E per esemplificare la cosa devo raccontarvi una storia mitologica, avvolta nelle nebbie della metà degli anni ’80: la leggenda di Giggino Maradona.

LA LEGGENDA DI GIGGINO MARADONA

Io sono di Torre Annunziata. Giocavo a “pallone” nella stessa squadretta di Bruno Cirillo, quello malmenato da Materazzi, e Marco Guida, quello che non se la sentì. Il mio “mistér” era il fratello di quel Lo Monaco sconosciuto a José Mourinho. Era la stessa squadretta dove Ciro Immobile cominciò nei pulcini mentre io appendevo -prematuramente- le Pantofole d’Oro al chiodo. Giocavamo sul campo “Vesuvio”, per metà coltivato a patate, per metà boscaglia incolta. Dovevi essere davvero bravo lì, a dribblare avversari, fango, rami, pietre e calciare un pallone di cuoio (“sola”) più pesante della metà di noi.

C’era un mito assoluto ai miei tempi per tutta la città, anzi per tutta la fascia costiera sotto il Vesuvio. Era un ragazzino, bassino, gracile, moro di capelli e olivastro di carnagione, uno scugnizzo dai ricci rio-platensi. Un piccolo demonio col pallone, un angelo dell’erba, un poeta degli scarpini. Non ricordo il cognome, non ricordo bene la squadra, ma nessuno la ricorda, non era importante. Per tutta la zona, per tutti, lui era solo Giggino Maradona. Quel nome apriva sguardi, solleticava fantasie, correva di bocca in bocca. Il vento che narrava le gesta di Giggino soffiava leggero ma inesorabile, gara dopo gara, “pezzo” dopo “pezzo”, e si imbrigliava in ogni rado filo d’erba dei nostri campetti, rotolava sull’asfalto delle strade dove ci sbucciavamo le ginocchia.

Giggino Maradona era un nome magico al tempo, non solo per noi ragazzini, ma per tutti gli adulti malati di calcio. Tutti con occhi sgranati e mascella spalancata davanti alle prodezze di quel bimbetto. Tutti fantasticavano su di lui, su loro stessi, su come un prodotto della loro terra avrebbe potuto, di lì a poco, e con un po’ di fortuna, stupire e ammaliare il mondo. Il ragazzino aveva il tocco di palla di Messi, genio e sregolatezza di Cassano, dribblava come Neymar e guizzava come Ronaldo. Insomma, in una parola: Giggino Maradona.

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L’eccezionalità del palleggio, delle piroette, del calcio con entrambi i piedi, la sensibilità del tocco, la capacità di irridere l’avversario, le punizioni, i riccioli, il sorriso argentino, insomma, quel ragazzo era l’oro di Napoli fuso in un dodicenne. Tutti andavano a vedere le sue partitelle: i parenti, i parenti dei compagni, degli avversari, il quartiere, la città, le altre città intorno. L’esaltazione si diffuse come polline, la leggenda deflagrava, la meraviglia di qualcosa che poteva diventare storico, i primi passi di un diamante planetario.

Tutti si sentivano parte di un’epica in divenire, di un piccolo fenomeno che avrebbe incendiato, vampa dopo vampa, il pianeta calcio. Quando giocava, il sole batteva sui volti della calca ai lati del piccolo campetto. C’era quasi più gente a seguire Giggino Maradona che alcuni club di Serie C della zona. C’era la folla anche quando il ragazzino si allenava, c’era ressa quando ai giardinetti sotto casa passava le serate a palleggiare, tra ragazzotti brilli e accannati e anzianotti che lo esaltavano. “Giggì si tropp bell, Giggì si o’ meglio, Giggi tu vai a giucà in serie A“.

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Cori dedicati, entusiasmo alle stelle. Il sogno di tutti sospingeva la carriera amatoriale di quel ragazzino. Giggino, dal canto suo, non pareva schiacciato dall’entusiasmo: gli piaceva la cosa, volava più leggero ad ogni “oooh” di meraviglia, danzava con la palla e “faceva ballare il tango sulle sue piccole cosce” ai coetanei annichiliti e timorosi. Figlio di madre con più lavori e di padre al “collegio” (inteso come casa circondariale), Giggino sosteneva con piglio sornione sulle piccole spalle il peso di una leggenda provinciale dirompente. Poi, giunse il fattaccio.

L’aneddoto mi fu raccontato in modo crudo: era la solita partitella della domenica mattina tra giovanissimi. Qualcosa come Pro-Scafatese contro Vigor Torrese. Solito bordo campo gremito e piccolo protagonista a deliziare tutti in campo. Solito show di Giggino Maradona: dribbling, triplette, orde di piccoli difensori buggerati, gol nel sette, gol di tacco dopo tunnel al portiere grassone largo il doppio. Solito trionfo ed adorazione al fischio finale. La folla inneggiante si avvicina a vederlo meglio per poter dire un giorno: io c’ero, io l’ho visto da piccolo, io lo conosco, era o’ meglio compagn mie!

Gli urlano come sempre e più di sempre: Giggì fai paura! Giggì li hai scamazzati! E infine, una voce bassa, baritonale di uno dei 40-50enni che si gasavano per quel pupetto, dichiara perentoria: Giggì, tu si comme e Maradona, tu fra qualche anno vai a pazzià dinto o Napule!

A quel punto, Gigino rivolge per la prima volta alla folla qualcosa di diverso del gaudente sorriso da piccolo mito benevolente e per nulla imbarazzato. Si ferma, incrocia le piccole braccia sulla maglia sporca, alza la testolina riccia e dal basso del suo metro e quaranta prorompe con una vocina da scricciolo: NO! Io tifo pa a’ Juventùs!

Il micro-universo del campetto si fermò un attimo trasalendo. Un silenzio ghiacciato avvolse gli astanti. Fu–dicono– come assistere ad una scena improvvisamente fuori fuoco di un’eclissi solare inaspettata. I presenti rotearono gli occhi con la morte nel cuore e sciamarono via silenti, atterriti. Sguardi assenti in volti granitici, nemmeno un brusio di disapprovazione, solo qualche sparuto “ma guarda nu poco!”. Il colpo per tutti era stato troppo fatale. Il piccolo Giggino Maradona era dunque Juventino. Sacrilegio. Eresia. Bestemmia. L’abuso del nome di D10S invano! Oltraggio e Sgomento!

Di colpo, l’epica svanì. La leggenda si dissolse. La magia e il sogno del quartiere, della città, dell’hinterland evaporarono. Magari Giggino non era niente di ché, magari un infortunio, il fisico troppo esile, la scarsa costanza agli allenamenti. Fatto sta che il marchio della rivendicazione juventino gli tarpò le ali.

Da quel giorno, credetemi, da quel lontano giorno di metà anni ’80, io di Giggino Maradona, il ragazzino che era stato un mito assoluto per 6 mesi, non seppi più nulla.

Dedico a lui queste poche righe, sicuro che sabato sarà uno dei nostri.

Sandro Scarpa