La Juve di Marzo? No, il Ronaldo di Marzo

Il primo terzo di stagione è scivolato via velocemente, privo di intoppi, eccezion fatta per due passi falsi arrivati comunque a seguito di ottime prestazioni. Gli ottavi di Champions sono in cassaforte, in campionato ogni due giornate guadagniamo poco più di un punto di vantaggio su chi insegue. Mantenendo questo ritmo (è possibile che si perda qualche punto nella prossime cinque giornate), si potrebbe addirittura vincere lo scudetto prima che compaiano le rondini. Insomma, basterebbe già solo questo per essere soddisfatti. Chi scrive ha un’ulteriore motivo di gaudio: i risultati finora acquisiti ci stanno risparmiando il discorso trito e ritrito de “La Juve di Marzo” e tutta quella serie di banalità che si portava dietro, spesso e volentieri con l’unico scopo di giustificare determinate carenze di gioco.

Siccome nutro la speranza che questo argomento non sarà più oggetto di dibattito, possiamo concentrarci su un nuovo topic, decisamente più interessante: il Cristiano Ronaldo di Marzo. Negli ultimi giorni, alcune testate – sempre solerti nello scovare presunti problemi in casa Juve – hanno lanciato l’allarme: Ronaldo gioca troppo! “È stato preso per la Champions, non per la SPAL” una delle tante perle che si leggono ovunque, come se nella sua decennale esperienza spagnola avesse unicamente giocato contro Barcellona e Atletico.

Andiamo direttamente al punto: il problema non sussiste ed è ampiamente dimostrato dai fatti.
Al di là che certi giocatori sono talmente solidi da non aver nemmeno bisogno di un reale sostituto (guardando agli anni passati, Bonucci e Pogba su tutti), Ronaldo si autogestisce perfettamente. Da qualche anno segue la stessa filosofia già sposata da Lebron James: all’aumentare degli anni, progressiva riduzione della massa muscolare per non intaccare la rapidità, ormai requisito principe del calcio moderno.
Se questo già da un’idea di quanto Ronaldo lavori sul proprio corpo per preservarlo come una scultura di Canova, tuttavia è un altro il dato interessante: negli ultimi due anni di Real, a partire da fine Febbraio/ inizio Marzo ha pressoché smesso di partecipare alle trasferte in campionato.

Stagione 2016/ 2017
È l’anno della seconda Champions consecutiva, ma anche della vittoria in Liga.
Fu un campionato tirato, vinto all’ultima giornata. Un titolo che mancava a Madrid da cinque anni e che negli ultimi dieci anni era stato blancos solo due volte. Ciò non impedì a Ronaldo di considerarlo un obiettivo non primario e fare un passo indietro: a Marzo non viaggiò più con la squadra e, in linea più generale, non giocò quasi mai le partite precedenti l’impegno in Champions. Delle otto trasferte finali, ne saltò ben cinque. Questa autogestione gli consentì di segnare cinque gol nei quarti di finale, tre nelle semifinali e due in finale.

Stagione 2017/ 2018
Il Real non lottò mai per la Liga, quindi il problema campionato nemmeno si manifestò. Rispetto all’annata precedente, iniziò a saltare le trasferte con qualche settimana di anticipo: ritenne, evidentemente, che il doppio impegno agli ottavi contro il PSG fosse più arduo di quello contro il Napoli di 365 giorni prima. Saltò nuovamente cinque trasferte delle ultime otto e le uniche che disputò furono contro l’Eibar (non era a cavallo con la Champions), contro il Barcellona (per evidenti motivi di prestigio) e contro il Villareal (ultima partita della stagione, utile a tenere il ritmo gara in vista della finale di Kiev).

Tutto fa pensare che questo tipo di autogestione proseguirà anche a Torino. C’è ora da capire se la Juve consentirà tutto ciò e, di rimando, come l’ambiente reagirà a un suo possibile disimpegno in campionato, in quello che generalmente viene considerato il momento più caldo della stagione.

Personalmente ritengo che, se così sarà, nessuno avrà da ridire. La società sa che, forse per la prima volta, è di fronte a un giocatore di cui ha più bisogno lei che non viceversa. Nei compagni si percepisce quotidianamente la voglia di lavorare per lui, per ottenere in cambio quel trofeo che per ben due volte è sfuggito di mano. Ne abbiamo riprova ogni giorno con la quantità di coccole che gli vengono riservate, fuori e dentro il campo, probabilmente come mai in carriera. Anche ieri sera sono tutti a corsi ad abbracciare lui, dopo il gol segnato da Mandzukic.
E siccome al mondo non esiste nulla di più incoerente dei tifosi, anche loro lo accetteranno di buona lena, dimostrando una volta per tutte come la retorica su maglia/sudore/sacrificio sia più vana che reale.

L’unico che potrebbe decidere di invertire il trend è solo lui e in parte dipenderà dall’esito della cerimonia del 3 Dicembre, quando verrà assegnato il Pallone d’Oro. Se reagirà di pancia potrebbe decidere di stringere i denti e giocarle tutte per dimostrare l’eventuale ingiustizia subita. Se prevarrà la testa – come mi auguro – la gestione fredda e calcolata continuerà. Sperando che porti gli stessi effetti degli ultimi 3 anni.

di Sergio (@_sersim su twitter)

Cancelo, Ronaldo e quella ipnosi sensoriale

E allora, è giovedì 29 Novembre e siedo alla scrivania del mio ufficio sbirciando dalla finestra l’andirivieni brulicante della gente, e dal momento in cui ho iniziato a scrivere questo pezzo su Cancelo al momento in cui lo pubblicherò su Juventibus passeranno almeno 30 minuti in cui proverò a fare il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di ciò che ho visto, sentito e immaginato nei 93 minuti di Juve-Valencia.

Sebbene fossi calato nella intensa esperienza emotiva di una gara decisiva di Champions –per di più, in una di quelle ricorrenti gare dominate che restano in bilico dal punto di vista del risultato-, i miei occhi hanno seguito con insistenza il nostro onnipotente e obnubilante terzino portoghese. In quei 93 minuti la mia mente di tifoso -assorta nel match, nelle trame del nostro gioco, nelle risposte valenciane e nella dialettica dinamica che veniva fuori da questo incastro- aspettava sotto-traccia che lui, Joao Cancelo, sbucasse ancora nell’immagine dello schermo, per attraversarla e venire a capo di tutto e tutti, portandosi la sfera a passeggio, mera estensione plastica della sua geniale e incessante  determinazione.

Ho visto un giocatore totalmente incapace di compiere un gesto tecnico, tattico o fisico banale. Un tocco di palla limpidissimo, come un mare caraibico. Doti di palleggio, di propriocezione, di controllo del corpo che lo portavano a sgusciare incessantemente tra maglie ed erba in modo quasi commovente. Ho potuto quasi sentire il profumo di quell’erba rasata e accarezzata dai tacchetti di Cancelo quando piroettava su sé stesso, baciata dalla sua suola negli stop e ripartenze e falciata avidamente dai suoi scarpini nelle volitive ed inesorabili corse verso la porta rivale.

Mi sono scoperto, in modo imbarazzato, a pensare che sì, in effetti bramavo il mulinare di gambe di Ronaldo e i suoi missili terra-area, e che sì, avrei goduto nel vedere se il sinistro di Dybala poteva azionarsi in Europa come quello –dannatissimo!- di Robben e che sì, era appagante osservare il giovane Bentancur fare surf tra i marosi spagnoli, eppure, no…io mi scoprivo a desiderare, ardentemente, che la palla andasse sempre nella ampia zona di Cancelo, perché lì, qualcosa sarebbe successo.

Qualcosa di seducente, raffinato e pretenzioso e sfacciato, ma non sfacciato in modo altezzoso, vagamente sbruffone, ma una sfacciataggine quasi dolente, non trattenibile: una sfrontatezza ineluttabile che il giovane Cancelo non può astenersi dal dimostrare, in modo insistito. Una spudoratezza nell’affrontare il suo ruolo…che dico?…nell’affrontare il gioco del calcio che non è una faccia tosta o insolenza, ma è piuttosto un’impudenza che lo arde e di cui deve liberarsi, una ribellione dolorosa verso gioghi e lacciuoli in cui finora, il calcio ha, in modo ottuso, confinato il ruolo del terzino.

Quella di Cancelo non è immodestia o villania arrogante, è inverecondia calcistica. Il contrario di verecondia, dal latino verecundia:la paura di fare cosa che possa venire rimproverata. La disposizione d’animo di chi rifugge da ogni cosa che possa, anche lontanamente, offendere la riservatezza, la modestia, il senso comune”. Joao Cancelo pulsa di inverecondia calcistica. Lui DEVE offendere e violentare il senso comune del ruolo di terzino. Nel senso più zelante del termine.

Tutto ciò è lubrico.

Ed in effetti, se giocare a calcio è come congiungersi carnalmente, se vedere il calcio ha una sfumatura voyeuristica, perché godi nel vedere altri giocare, allora, in una gara importante, essere inebriato non dalla gara in sé ma, quasi puerilmente, dalla “sfacciataggine dolente” di Cancelo è -non mi vergogno ora di dirlo, ripensandoci- pura perversione erotica, se vogliamo anche parecchio deviata.

Ho visto una Juve inedita, trascinata dalla vogliosa e farraginosa ricerca della bellezza, del pressing alto ma frastagliato. Una verticalità scivolosa, con gare che restano in uno strano bilico, una sorta di beccheggio lento in cui, quando i nostri (e soprattutto Cancelo) assaltano in attacco, ti senti librarti in aria, in attesa fremente che l’intricata rete di arzigogoli possa tradursi in volute efficaci fino al gol. Ed invece no. Arrivati al limitare dell’area rivale arriva il rinculo, la palla persa e la marea finisce per essere risacca leggera, sbatte contro i frangiflutti e torna indietro.

Poi riparte subito o quasi, ma in quei rari rivoli della gara che sfuggono ai nostri ti senti sospeso di nuovo sospeso, non saldo sulle gambe, e non è più uno squilibrio piacevole, come quando la marea sale, ma è sinistro. Perché ti accorgi che lì dietro, basta poco per prendere un gol beffardo. Un nonnulla, un rimpallo, un passaggio errato nel nostro intrico di arabeschi e cavalcate e folate (per lo più di Cancelo) e potremmo prendere un gol. E’ una sensazione che aumenta col senso di colpa nel sentirsi appagato dalla tecnica che non si traduce in gol sonanti e, anche se gli altri non fanno un tiro in porta, insomma!…si tratta pur sempre della maledetta Champions e veniamo dalla beffa inusitata contro l’altro portoghese, non afrodisiaco come i nostri due, ma quello triste e decadente, che alla fine ha fatto il gradasso patetico.

Così, tutto il piacere per l’audacia di Cancelo che, per osmosi, dai due portoghesi si propaga ai sudamericani che fanno veroniche e doppie finte e poi ancora contagia gli slavi con tacchi e tocchi effettati e tutta questa ricerca del gesto iconico ti lascia rapito e ipnotizzato, ma anche confuso. Alla fine l’onda lunga del fraseggio e della spavalderia pervade anche gli insospettabili, con Bonucci che eccede nelle uscite audaci a testa alta e nei lancioni complicati, e infine, anche l’ultimo baluardo è contaminato:  il nostro Capitano, che abbandona spazzate in tribuna e idiosincrasia per i 6-2 e finisce per provare, non una, non due, ma ben tre volte un filtrante di esterno sinistro a girare. Chiellini che sembra Quaresma, anche lui portoghese: inaudito!

In tutto questo bailamme di tecnica, coraggio, ghirigori e ritmi davvero europei, ecco che alla fine, la tua adrenalina di tifoso è fomentata non per il risultato o per il passaggio del turno o per gli sprazzi di fulmicotonica Juventus davvero-europea, ma viene solleticata da tacchi e rulete, sedotta da fascinose verticalizzazioni, da sibaritici scambi di prima e da mozzafiatesche scelte sfrontate in zone del campo in cui la palla non è più sfera incandescente di cui liberarsi il prima possibile, ma gioiello lussuoso di cui farsi vanto, da esibire a testa alta. Tutta questa ipnosi sensoriale, per pochi attimi, quando le cose funzionano, fa trasfigurare i volti dei nostri, così ti pare di vedere quasi dei triangoli  Dani Alves-Iniesta-Xavi, ma più violenti, o hai il miraggio di scambi lunghissimi Marcelo-Modric-Ronaldo, in cui però solo quest’ultimo è davvero lui.

Alla fine poi l’adrenalina ti piomba giù di colpo, tre volte, quando, col più banale e bieco stratagemma del gioco del calcio (che noi stiamo cercando, con Cancelo in testa, di condurre in una nuova era inesplorata) gli “altri” randellano pragmaticamente la realtà: cross alto in area col lungagnone che svetta. Avviene per ben tre volte: nella prima Szczesny ci ricuce l’anima che si sta scollando, nella seconda è l’arbitro che indica il braccio del suddetto lungagnone, la terza volta infine è sempre lui, Fellaini, che ci fa maledire l’anima di un calcio così vintage e banale, eppure efficace.

Così resta un sapore agrodolce e bolloso, e vieni fuori da 93 minuti mesmerizzanti, in cui Cancelo sembrava nel prima un Dani Alves con meno fronzoli e poi un Marcelo più longilineo, e ti accorgi che troppe cose sono passate in questi anni e non te ne sei accorto: la Juve dagli agghiaccianti campi turchi è arrivata pragmaticamente alle finali contro i veri Alves-Iniesta-Xavi e le ha buscate, poi ha iniziato ad affrancarsi da quel calcio stolido fatto di cross, lungagnoni e fortini e spizzate e si è imbottita di sudamericani guizzanti, sinistri carezzevoli, centrali beckenbaueriani e terzini danialvesiani (anche quello vero!) ed è ritornata in finale contro i veri Marcelo-Modric-Ronaldo, e le ha buscate di nuovo.

Poi in pochi mesi, quel 424 che pareva delirio alcolico è diventato via via sempre meno folle e anzi, poco ardimentoso, non ci bastava più. Così, dopo un anno “vintage”, abbiamo ripreso il “centrocampista” Bonucci, abbiamo aggiunto l’uomo più afrodisiaco di sempre e gli affianchiamo altre 2 punte. Viene fuori  così un 235 con 2 centrali italiani, uno centrocampista e l’altro che anticipa altissimo e si mette a fare la trivela, un bosniaco trequartista che gioca davanti alla difesa, Benta che fa surf, Matuidi che ringhia così alto da trovarsi in offside, due terzini che vanno 20 metri più alti dei tornanti di una volta e 3 punte che fanno CAOS.

Ed è vero che alla fine è solo un’illusione e la strada è ancora arida, lunga e sterrata, ma in quegli sprazzi, in quelle fenditure in cui speri che la palla vada a Cancelo e lui si divora tutta l’immagine e la dà all’altro portoghese, in quegli squarci diventa tutto bellissimo, stordente, abbacinante e -probabilmente/potenzialmente- intravedi l’inizio di una straordinaria stagione calcistico-erotica. AMEN!

Sandro Scarpa.