L’Ultimo Viaggio di SuperGigi / VAR? Devo farlo io, per primo

L’ultimo viaggio di Gigi Buffon è il diario-racconto, dalla parte del leggendario portiere bianconero, della sua ultima stagione. Giorno dopo giorno, gara dopo gara, sfida dopo sfida. Emozioni, sensazioni, ricordi, speranze, esultanze. E, ancora, sogni. Omaggio di Juventibus.

 

Tocca a me, mi sono detto, com’è già stato altre cento, mille volte. Devo farlo io, per primo. Con i gesti, l’eco delle parole in certi momenti è solo rumore, questo è un periodo in cui se ne dicono e se ne sentono troppe.

 

Questa settimana mi sono allenato concentrandomi su ogni attimo, attento a non lasciar sfuggire un pallone, non risparmiando neanche un piegamento. Mi sono fatto sentire in partitella, più del solito, richiamando le distrazioni, le pigrizie, le spacconerie. “Riattaccare la spina” ha detto il mister, è il tormentone di ogni anno, ma io credo si tratti di qualcosa di meno manifesto. Non è qualcosa che si decide dall’oggi al domani. Non sai di essere spento, e l’attimo dopo, non ti senti acceso a comando.

 

La fame di vincere è una forza, un’energia interiore che riemerge a ondate lente e sicure, come la marea, e riempie, e corrobora i tendini, i muscoli, i nervi. Dove nasce? Non conosco il luogo preciso, e forse non c’è. Si genera tra cuore e mente suppongo, ma se non si trasmette, se non si diffonde come un’epidemia tra tutti i membri del gruppo, se non si scambia tra compagni come un calice comune al quale abbeverarsi, allora non s’infiamma mai e smette di crescere. Resta un desiderio, un proposito. Un’entità esterna, lontana e intangibile. Un fuoco occasionale, che non diventa mai incendio distruttore per gli altri e purificante per noi stessi.

 

L’altra domenica dopo la Supercoppa, il mio primo pensiero è stato autoindulgente. È la prima gara della stagione, ho pensato, abbiamo lavorato duro, gli obiettivi principali sono altri, il campionato, la coppa che è il mio Graal dell’eterna giovinezza, il Mondiale. Poi, a freddo, ora dopo ora, ho iniziato a sentire lo stomaco bruciare. È l’ultimo giro, e voglio tutto. Volevo tutto, qualcosa che doveva essere mio è già perduto. Invecchiando, si dice, il senso del possesso torna vivido e pulsante come nei bambini, un demone ossessivo. Voglio provare a prendermi tutto, per l’ultima volta. È questo che devo trasmettere ai ragazzi, ai vecchi, ai nuovi.

 

Il quotidiano, dall’inizio del ritiro fino a oggi, è un’alternanza di immersioni ed emersioni. Momenti in cui la fatica fisica e la concentrazione sulla prestazione fermano il tempo in una dimensione di eternità totale, un eterno presente che sembra non poter cambiare, io con i guanti e con me stesso, in divisa, verso l’obiettivo e il pallone in movimento, lontano e poi sempre più vicino, poi ancora lontano e poi nelle mie mani. E attimi di riposo, a casa, al ristorante, con Ilaria, in cui ci si distrae e si ride, prima che il pensiero torni al futuro, al tempo che è fugace, alla clessidra che ho dovuto girare per l’ultima volta, alla dimensione del passato in campo che giorno dopo giorno sovrasta per quantità ciò che resta del futuro.

 

Ed ecco perché in gara contro il Cagliari, quando l’arbitro Maresca ha mimato la forma dello schermo, e ha assegnato il rigore contro di noi utilizzando per la prima volta il VAR, ho provato una gioia infantile e intensa. Una gioia intima, tutta mia. La partita c’era il tempo di vincerla comunque, tutto il secondo tempo, ma per me era un’occasione unica.Un rigore in campionato per un portiere è la sfida più semplice, se prendi gol è normale, sei innocente, ma se pari sei l’eroe, il muro insuperabile che assorbe il terremoto e fa vibrare di adrenalina lo stadio intero. Se pari, ho pensato, puoi far ricominciare l’epidemia. Ed è proprio così che è andata. Uno sliding-doors, un momento simbolico, dove accade tutto ciò che è importante, e accade tutto insieme. Uno di quei rari attimi in cui immersione ed emersione convivono.

 

Il grande vecchio del calcio italiano, l’elefante stremato e senza fame inaugura il futuro del calcio tecnologico, si appropria del nuovo inizio e lo fa suo. Ho guardato Farias, mentre si preparava. Non incrociava lo sguardo, faceva il vago, è sempre un buon segno. L’ho guardato e riguardato, mentre tutti gli altri si sistemavano al limite dell’aria. L’ho fissato mentre sistemava il pallone e prendeva la rincorsa. Era dubbioso, titubante, sensazioni che in campo si avvertono. È partito lento e si è fermato, e lì la chiave è sempre una, non anticipare il tuffo, non affidarsi alla lotteria dell’angolo destro o sinistro. Se chi tira fa i passetti non può caricare, e se si ferma è facile intuire dove tirerà dalla posizione del corpo. Destra, la mia destra, il suo incrocio. E poi il boato. Verso la curva, ho urlato che era per loro, ho alzato il pugno al cielo, per tutto quello che ho detto. E in quel boato, non c’era più Buffon, non c’era Marchisio, non c’era Dybala, non c’era Higuaìn, non c’erano 40 mila persone diverse in tribuna. Nessuno aveva nome, o cognome, o genere, nessuno aveva più madri, o figli, né mogli o mariti, né lingue, né ricordi. Eravamo una sola esultanza.

 

Ho sentito il fuoco della vittoria crescere, in quell’attimo, negli spogliatoi, per tutto il secondo tempo.

 

Se diventerà ancora incendio non so dirlo. Ma il fuoco è stato acceso, come ogni anno, come in ogni stagione. Voglio ancora sentire la gloria dei boati, e il rumore della vittoria che è un battito all’unisono, io da solo, fra i pali, con 10 compagni d’avanti e 12 milioni di tifosi intorno a me.