Ma vincere conta o non conta?

E’ un’epoca confusa, in cui festeggiano qualcosa tutti tranne chi ha vinto davvero, che invece è ancora lì ad allenarsi duramente in vista di altri impegni.

Un’epoca in cui, come noto, se la Juve vince nettamente l’avversario si è scansato, ma se chi insegue vince con varie goleade di fila contro squadre che ormai non hanno nulla da chiedere è il trionfo del bel gioco.

In cui se si ritira un grande giocatore (leggenda della sua squadra) che ha vinto poco bisogna esaltarlo ancor più di quanto già meriti proprio perché ha vinto poco, perché il vero sport è questo, e “che ne può capire chi pensa che vincere sia l’unica cosa che conta?”.

 

Eccolo, il punto su cui c’è maggiore confusione. Il punto in cui andate più in confusione: vincere conta o non conta?

 

Premessa: cosa vuol dire l’ormai celebre (famigerata) frase di Boniperti, ovviamente interpretata in modo demenziale da chi juventino non è, come se sottindesse un significato malizioso, luciferino, un “l’importante è vincere con qualunque mezzo, pur se non consentito”?

 

Boniperti intende una cosa che nello sport professionistico dovrebbe essere ovvia: si gioca per vincere.

Ai giardinetti con gli amici, nel torneo amatoriale tra pensionati, si gioca per divertirsi, per applaudire la grande giocata del rivale, per sorridere del grossolano svarione del proprio portiere. E’ giusto (e meraviglioso) così.

Nello sport professionistico si compete per provare a essere i migliori. Conta solo questo, nel preparare una stagione, una competizione, una singola partita. Testa solo alla vittoria. Il resto (le feste per il “bel gioco”, la ricerca degli alibi, i mille scudetti creati quest’anno pur di attribuirsene uno e non riconoscere quello reale) è roba creata ex post da chi non ce l’ha fatta.

La Juve ci riesce spesso. Quando non ci riesce, cambia qualcosa per tornare a farlo. Diversi giocatori, l’allenatore, perfino il gruppo dirigente, fin quando non si ritrova quell’alchimia necessaria per tornare a essere i migliori.

Non è, non deve essere esattamente questo l’obiettivo delle più grandi squadre professionistiche?

 

No, ti dicono.

Ma poi vanno in confusione.

 

Perché c’è chi quando vince poi festeggia per un anno di fila felice come non era mai stato in vita sua; chi viene celebrato al suo addio per il suo amore cieco per la maglia e non per la vittoria, ma quando vinceva irrideva i rivali indicando con le dita il numero dei gol di vantaggio; chi celebra addirittura il trentennale del primo scudetto (e perché non i venticinque anni del bel Napoli di Lippi, i 50 di quello emozionante di Sivori e Altafini, e scommetterei che tra vent’anni nessuno festeggerà questa stagione di Sarri & co?), perché in fondo giocar bene è certamente esaltante, ma anche vincere non è poi così male.

 

I veri maestri dell’ipocrisia, anche in questo campo, sono tuttavia i tanti tifosi interisti che indignati contestano aspramente lo slogan juventino, salvo poi dichiararsi eternamente devoti a Mourinho. Non per il bel gioco e la leggendaria sportività, supponiamo, ma per i trofei conquistati, che da quelle parti mancavano da 45 anni.

Tu parli del problema vaccini e loro ti mettono a tacere: “triplete!”. Discuti le prime mosse di Trump e loro sono categorici: “triplete!”. Gli ricordi che per loro non dovrebbe contare solo vincere ma non riesci a finire la frase perché loro ti hanno già azzittito: “triplete!”.

Abbiamo vinto tre trofei in un anno, ti dicono fieri a 7 anni di distanza. Vinto, vinto, vinto!

E poi “zero tituli”, mantra di ogni interista, ormai un neologismo della lingua italiana, che è l’apoteosi del vincere è l’unica cosa che conta, con tanto di derisione dell’avversario.

 

Non ricordano la spumeggiante Inter di Cuper, gli esaltanti primi mesi di Stramaccioni o la bella rincorsa di Pioli. Ricordano i trofei, solo quelli. Per quello amano incondizionatamente Mourinho, l’uomo che più di tutti viene associato alla vittoria e a nient’altro. Amano Mourinho che vola sotto la curva dopo il gol in plateale offside di Maicon a Siena. E per un giorno poco male per la morale, il bel gioco e la sportività.

 

Per questo, quando Conte faceva vincere quelli che hanno adottato quell’orribile slogan, gli interisti a momenti lo volevano arrestare, mentre ora lo vogliono lì a tutti i costi. E chi se ne frega del suo passato, delle urla felici del 5 maggio, di quel comportamento così esecrabile nell’omettere di denunciare.

Lo bramano perché sono pronti a passare sopra tutto pur di non dovere aspettare altri 45 anni per rivivere i fasti di Mourinho.

E non ci vedrei proprio niente di male, in tutto questo, se non ci fosse la solita ipocrisia di sottofondo.

 

Bene, ma perché questo pezzo oggi, a ridosso della finale di Champions?

Perché nulla spiega meglio la suddetta ipocrisia dell’atteggiamento di media e tifosi avversari di fronte al tema “Juve in Europa”.

Lì, i convinti decoubertian-zemaniani diventano più bonipertiani di Boniperti.

 

Le 9 finali di Champions, 6 negli ultimi 21 anni, il record di 3 consecutive, le tante straordinarie vittorie contro Real e Barcellona nei quarti e in semifinale non contano più niente, se ne vinci solo due.

Le finali perse ai rigori, quelle con gol in fuorigioco, quelle contro i più forti del pianeta non ci hanno consegnato alcun onore delle armi o titolo morale, tantomeno un “grazie lo stesso”, ma hanno piuttosto dato manforte ai più ridicoli luoghi comuni sulla Juve e gli arbitri in Italia.

L’Italia. Il paese indignato per quello slogan di Boniperti così antisportivo, così truce, così diseducativo, tranne in due casi: quando vince la propria la squadra del cuore e quando perde la Juve.

Il Maestro Massimo Zampini