Perché la Juve ha perso contro Ciro Immobile

Uno-due nel vero senso della parola: ravvicinato, appena tornati sul ring, sorpresi come un dilettante e pure senza caschetto; guardia farfallona, baldanzosi, peccatori; nulla viene per caso.
A tutto c’è un perché, e i perché che contano sono quelli spiegati da Massimiliano Allegri che a domande ha risposto. Il primo tempo fatto come lo si era progettato, i sessanta minuti di autonomia di Khedira, la spirale obbligatoria Lichtsteiner-Sturaro interessano, però fanno da contorno. I perché che interessano non sono neppure legati agli episodi, non destino e non declino, termini che stanno tra il gassoso e il morboso.
Più semplicemente, la sconfitta contro la Lazio di Simone Inzaghi  l’ultimo (?) anello di una catena. Tra i due rigori falliti da Dybala ci sono state le valutazioni di Allegri, le scelte mirate, e quindi poi le risposte sul campo. Allegri è andato dritto sulla fiducia (in se stesso) e sarà più facile che possa correggere il tiro. Tra i pregi, mettiamoci che è un uomo acuto, principe se non re dei correttivi cammin facendo.
Il tema: Allegri si è fidato di ciò che ha visto con i suoi occhi mentre mezza squadra stave altrove.

Douglas Costa che panchina Bernardeschi (giocatore che si sente e che mai verrà specializzato in una sola cosa) nonché Cuadrado sul lato destro.

Costruzione per Higuain senza portare palloni ai fianchi di Higuain: fa strano vederlo scimmiottare la furia di cui erano capaci Vialli e Tevez, quasi strano come non finalizzare quel che il suo curriculum scrive a pagina uno. Tutto davvero molto strano e straniante.

Asamoah fulcro, punto di domanda.

Sturaro che non può più fare il centrocampista (Bentancur gioca “per emergenza”, testuale) neppure nel centrocampo a tre che invece di per sé ci stava perché la Lazio ci aveva detto qualcosa in Supercoppa e perché Khedira al rientro, cito, “andava protetto”.

 

Allegri non è stato quindi tradito da Dybala, ma dal suo stesso occhio, ciò di cui più si fida ed esattamente ciò a cui si affiderà per riprendere da subito le briglie della squadra. Letta nel complesso, Immobile manda in vacca il progetto piùforza-contro-forza: Allegri temeva la fisicità della Lazio e voleva vincerla alla tedesca. L’ha persa invece alla roulette russa, senza vera dominanza e senza lucida logica da metà ripresa in avanti, fase sovente karmica per il nostro: due torri dentro e nessun cross dal fondo, Chiellini che fa l’uomo di spinta come in altre serate, poche, che ricordiamo disperate in questo lustro.

In mixed zone le colpe specifiche se le accollerà tutte Barzagli.

Ed ecco che a tutto c’è davvero un perché.

In occasione dell’1-1 ha fatto ciò che faceva con la difesa a tre.

Consapevolezza può essere ripartenza: lavorare sulla difesa affidarsi a chi gioca in difesa e neppure tornare a sedersi sulla difesa.

Guai, adesso come mai, alle controrivoluzioni.

Luca Momblano.

La banalità del male

“Le sconfitte –  o, meglio: le non vittorie – della Juventus si somigliano tutte”, capitolo ennesimo. Ergo inutile tornare su considerazioni tecniche, tattiche o di atteggiamento espresse già nel post Bergamo e ingigantite da una prestazione (di singoli e squadra) molto peggiore che ha avuto come giusto corollario l’unico risultato possibile, contro una squadra ordinata nell’eseguire il piano partita preimpostato ma nulla più (ma sui peana per “Inzaghino” torneremo poi).

La Juventus è prigioniera di se stessa. Dei suoi retaggi, delle sue convinzioni solo all’apparenza inscalfibili e immutabili nel tempo, delle sue paure ataviche, del suo voler continuare a percorrere una strada che questo primo scorcio di stagione ha dimostrato non essere (più) quella giusta, del suo minimizzare dietro il solito refrain post gara e l’altrettanto solita retorica da social (prego ricordarsene quando si vorrà prendere per il culo Bonucci e i suoi tweet motivazionali) dei problemi che ci sono e andrebbero affrontati prima che sia troppo tardi. E si, anche metà ottobre potrebbe essere troppo tardi. Perché superomismo e cieca fiducia nella ripetitività di una rimonta probabilmente irripetibile a parte, la realtà con cui dover fare i conti è quella che segue:

Ma il Napoli che prova a scappare meritatamente via, in fondo, è il meno. Il più è costituito da tutta una serie di questione irrisolte (e irrisolvibili? Lo dirà solo il tempo) che, in attesa della condizione fisica ottimale (altro dogma insindacabile sull’altare della giustificazione perenne a prestazioni di un certo tipo), limitano l’espressione del reale potenziale di questa squadra: dall’estremizzazione del concetto di gestione dei ritmi della partita, ben fotografata dai retropassaggi susseguenti al recupero palla a metà campo, al nuovo crollo psicologico dopo il gol avversario (e, più in generale, all’episodio che ti dice male), dal panchinare a prescindere Dybala (zero minuti nelle due gare con l’Argentina), nonostante la sua imprescindibilità in contumacia Pjanic, per il timore del jet lag, ai fischi a Douglas Costa perché «non deve fare troppi giochetti», dall’ accanimento terapeutico su un Mandzukic palesemente provato dall’utilizzo a tutti i costi degli ultimi tempi (e dire che, proprio sugli esterni, le alternative non mancherebbero), all’agitare a comando il sempre utile spauracchio di Maifredi quando si prova a far notare sommessamente che magari un minimo di fluidità e qualità nello sviluppo del gioco negli ultimi trenta metri sarebbero necessarie. Sia chiaro, non tutto è ascrivibile all’uomo che siede in panchina (che ieri ci ha messo tanto di suo, comunque), ma è parte di una mentalità e di una narrativa che la Juventus si è costruita nel tempo e che pare non intenzionata a cambiare in alcun modo, visto che «così abbiamo vinto n. campionati e così continueremo a vincerli perché only our way is the right way».

Poi, certo, possiamo continuare, come si sta già facendo, a ridurre tutto all’episodicità del calcio, al fatto che con Allegri si carburi da novembre in poi (e, a questo giro, potrebbe non bastare), su Dybala che sbagli due rigori da 4 punti, su Higuain ancora in cerca d’autore, su pali, traverse, Var e rimpalli: ma vorrebbe dire mettere la testa sotto la sabbia di fronte ad una Lazio che ha sfondato per vie centrali senza trovare la minima opposizione, al nulla cosmico susseguente all’1-2 di Immobile, al buco nero nel ruolo di terzino destro che ha effetti nefasti sull’intera catena, al fatto che, in assenza di Pjanic, manchi completamente una dimensione verticale della manovra, alla gestione rivedibile di certi singoli (Rugani e i già citati esterni su tutti), all’attesa messianica del salvifico colpo risolutore del singolo senza mettersi in condizione di fare poi chissà che per meritarselo, alla demineralizzazione delle qualità dei singoli tecnicamente più validi non messi in condizione di rendere per quanto potrebbero e dovrebbero. Ma, anche qui, siamo in un campo minato in cui qualunque passo è quello sbagliato e qualunque considerazione che esuli dal “va tutto bene perché tanto li riprendiamo, poi a maggio non salite sul carro”  viene vista come puro esercizio di stile di novelle Cassandre che si divertono a vedere solo quello che non va.

Punti di vista, ovviamente. Ciascuno ha il suo in cui trovare conforto e spiegazioni ad un momento comunque negativo. Basta non chiudere gli occhi di fronte all’evidenza dei fatti e alla piega che prenderà questa stagione. E questo a prescindere se ad essere in torto sarò io che continuo a vedere una squadra che gioca pericolosamente ad autolimitarsi o chi, invece, si è attestato sulla linea del “è solo un momento passerà”. E, davvero, spero di essere in torto io.

p.s. (ma neanche troppo) Ero in debito su Simone Inzaghi nuovo profeta della panchina. Ecco, il fatto che, nell’ennesima e frettolosa ridda di nomi, più o meno credibili, per il dopo Allegri il primo della lista sia lui e non, per dire, un Thomas Tuchel, dà l’esatta percezione del tipo di svolta culturale (prima che tecnica o tattica) di cui quest’ambiente necessiterebbe. E che, puntualmente, non avverrà, perché «noi non facciamo così». Con i risultati che, paradossalmente, confortano e nascondono allo stesso tempo. Semplice e banale. Come il male che colpisce tutti prima o poi. Anche i sei volte campioni d’Italia.

Claudio Pellecchia