Una Juventina nel regno del Sarrismo

 

Venerdì sera c’è Napoli-Juventus.

Per uno juventino napoletano, sono giorni terribili. Anche per una juventina.

Già normalmente è dura sentirsi minoranza calcistica oppressa nel regno azzurro del bel gioco e del sarrismo, ma in questa settimana trascorrere lungo le strade piene di discorsi calcistici e bandiere azzurre, incocciare a ogni angolo pizzerie che offrono sconti per l’infortunio di Higuain acuisce lo straniamento di me che son parte di questo manipolo di rinnegati i quali, in barba al dogma dell’appartenenza, tifano per una squadra del Nord.

Così non mi resta che stringermi nella ruvida scorza di un dignitoso silenzio, che come un cappotto mi ripara dal freddo della riprovazione degli astanti, consapevole che ogni parola, ogni ostentazione di simboli bianconeri potrebbe essermi fatale. Costretta ad abbozzare un sorriso, anche quando i colleghi mi invitano a prendere il caffè in un bar del Centro Direzionale che si chiama Juvemerda, e a replicare con uno sguardo sfuggente al barista che mi porge la tazzina con un

“Signorì, forza Napoli sempre e Juve merda!”

Aspetto con ansia che arrivi venerdì, perché a volte anche una semplice pizza tra amici, alla vigilia di un match così importante, può trasformarsi in un incubo.

Pizzeria ai Tribunali.

Dopo un’interminabile attesa in mezzo al bordello ci sediamo e ordiniamo. Arrivati i beveraggi, i miei amici insistono per brindare all’infortunio del Pipita, cui mi sottraggo con riottoso sdegno.

Ben presto inizia a pervadermi una strana sensazione: sguardi minacciosi, invisibili mi scrutano, orecchie attente auscultano ogni mia parola, nell’angolo i camerieri confabulano misteriosi. Uno di loro, nero come un tizzone infernale e tatuatissimo, si rivolge a me:

“Signorina, lei cosa ha ordinato?”.

La gola si secca, la lingua si spezza e sbianco sotto il fondotinta, presa dal panico vorrei mentire, ma non ci farei una bella figura e coraggiosamente lo affronto:

“Una margherita.”

Benissimo“, fa eco lui con un lampo luciferino negli occhi scuri,

Dovrà attendere un po’ perché le dobbiamo cercare un piatto del Napoli. Abbiamo sentito che è della Juve. A fine serata la costringeremo a dire forza Napoli.

Il sudore, già copioso per il caldo asfissiante del locale, diviene freddo, il mascara inizia a sciogliersi, scenari lugubri si palesano dinanzi ai miei occhi e la mente rimanda a quelle leggende che mi raccontavano i fratelli sul trattamento che veniva loro riservato quando venivano scoperti: pubblico ludibrio e costrizione all’abiura.

Non ho paura, ma ho deciso che affronterò con coraggio e #finoallafine tutte le prove, senza cedere neppure di un millimetro di fronte alla violenza del fondamentalismo. Le pizze arrivano, ma il mio piatto è bianco. Il cameriere con aria sconfitta mi fa:

“Il piatto non lo abbiamo trovato. Per questa volta è salva.”

E mi lascia con un sorriso e un occhiolino. Per tutta la serata non sono riuscita a liberarmi dal pensiero che, in mancanza del piatto, essi abbiano consumato la loro vendetta in altro modo.

La paura è (sempre) l’attesa di un male.

 

di Annalisa Scassandra

 

Lettera di un padre juventino rassegnato al figlio

Caro figlio mio,

stasera ho ripensato a quello che ci siamo detti negli ultimi giorni e mi è venuta voglia, quasi necessità, di scriverti.

È vero che ultimamente i nostri rapporti, quando si parla di quell’argomento lì non sono più come prima. È che ci sono rimasto male, anche se faccio finta di niente, sai com’è…

Ricordo ancora quella sera di qualche anno fa, come se fosse ieri. Eravamo seduti in cucina, io e tua madre, e tu nell’altra stanza, con quel tuo amico. L’ho sempre un po’ temuto, quello lì, per quello che faceva, per quello che raccontava. Sapevo che poteva avere su di te un’influenza molto forte e per questo, non ti nascondo, spesso tendevo l’orecchio per carpire qualche parola, qualche ragionamento. Prontamente interrotto da tua madre, come al solito.

Ecco, tua madre. Tutto questo è anche colpa sua, dei suoi ragionamenti sulla libertà di scelta, sul non dover imporre nulla ai figli, sul provare a dare un esempio ma che poi, alla fine, dovevate essere voi a seguire la vostra strada. Ecco, accidenti a me quando ho voluto darle retta. Avrei dovuto essere forte, impormi, dirti che su certi argomenti non c’era scelta. E quei ragionamenti sull’essere un padre “moderno”, “progressista”… al diavolo, al diavolo! Tutte stupidaggini, perché poi arriva quel giorno e non sai che dire…

Eravamo in cucina, e tu sei arrivato, con quella maglietta che ti aveva prestato il tuo amico. Ti stava anche un po’ stretta, per la verità, ma ne eri così fiero… Avevi occhi innamorati, me ne sono accorto subito. Certe cose non hanno bisogno di parole, ci sono passato anche io, anche se dalla parte “giusta”.

In quel momento ho messo insieme vari pezzi che per distrazione (o per far finta di non vedere) avevo trascurato in passato. Frasi, atteggiamenti, insofferenza. Tutto quadrava ad un certo punto, il velo era caduto dagli occhi.

Ho pensato a me, a cosa avrebbero detto i miei amici, ai progetti che avevo su di noi, delle cose, dei viaggi, che avremmo potuto fare insieme. Tutto crollato in un istante. Ma poi ho pensato soprattutto a te, di quanto avresti sofferto nella tua vita, di quanto, al di fuori del tuo ambiente, gli altri ti avrebbero preso in giro. Ho provato anche a dirtelo, ma ormai avevi preso la tua decisione e non c’era nulla che ti avrebbe fatto cambiare idea.

E così, con molta sofferenza, ho accettato il tutto.

Ho pensato che se sei felice tu, va tutto bene. Ma non ho potuto fare a meno, in questi ultimi anni, di pensare che ci siamo persi delle belle occasioni per gioire insieme, anche se è stato bello sentirti vicino nei momenti di difficoltà. E so che hai dovuto sfidare anche i tuoi amici, in quelle occasioni e nemmeno ho capito se la tua vicinanza in quei momenti era di facciata o lo facevi solo perché, in fondo, davvero dispiaceva un po’ anche a te vedere il tuo “vecchio” soffrire. Sappi, figlio mio che succede lo stesso anche a me. Tante volte, in discorsi che si fanno tra amici, mi trovo a prendere in giro quelli come te, anche se spesso è anche colpa vostra: siete voi a rendervi ridicoli. Ma, in fondo, soffro a vederti soffrire, mi spiace vedere che c’è pregiudizio perché ho imparato che ci sono tanti che vivono questa passione come te, in maniera sana, equilibrata, senza eccessi. Ma che non fanno notizia, purtroppo.

Ma non potrò davvero mai dimenticare la sensazione di vuoto provata quella sera, in cucina. Quella sera in cui trovasti il coraggio di confidarti.

Quando mi dicesti che avevi scelto come squadra del cuore il Napoli.

 

Io, ragazzo juventino a Napoli

Oramai si sa da un po’ di tempo: essere juventini a Napoli è come essere l’unico pallido tra i tuoi amici abbronzati il 15 di Agosto.

Non c’entri nulla. Iniziano a chiederti: “Ma com’è possibile?”.

E tu imbarazzato rispondi:”Che ci posso fare?“.

Insomma,non ti capiscono proprio. Eppure tu quella maglia a strisce bianconere la indossi durante le partite come se fosse una seconda pelle, diventa il tuo amuleto e non ti vergogni di mostrarla in pubblico, soprattutto quando inizia la settimana di Napoli-Juventus che tra i partenopei è “la partita“.

Durante quei giorni che precedono il big match parli con i tuoi compagni di classe della possibile formazione, dei possibili festeggiamenti e, soprattutto, della pena da scontare se la propria squadra dovesse perdere.

Il napoletano-juventino è colui che non può festeggiare all’aperto le proprie vittorie ma può sbeffeggiare gli amici.

Il napoletano-juventino è colui che sa che se dovesse perdere, i giorni successivi saranno un inferno.

Il napoletano-juventino è colui che tutto l’anno deve sorbirsi la solita frase: “Non puoi essere juventino se sei nato a Napoli.

Un bambino di 6-7 anni che vuoi che ne sappia della storia del Regno delle due Sicilie?

Il napoletano-juventino è colui che, nonostante le mille critiche dei tifosi napoletani, cammina a testa alta mostrandosi orgoglioso di tifare quella squadra.

Il napoletano-juventino è un tifoso normale che ha anche ‘coraggio’ di tifare una squadra tanto odiata dai napoletani.

Lo juventino a napoli ha una mentalità diversa perché non si è fermato ai confini regionali ma ha scelto di tifare un’altra squadra, quella che più gli piace, che più lo emoziona, che più gli fa amare il calcio.

Il napoletano-juventino è colui che accetta le critiche in silenzio per poi rinfacciare il tutto nel momento in cui per, l’ennesima volta, la sua squadra vincerà la partita.

Questo è il napoletano-juventino. Non deve essere emarginato solo perché tifa una squadra diversa dagli altri. Ama allo stesso modo la propria Terra, indipendentemente dalla squadra per cui tifa.

Siamo nel 2017: cresciamo! Per amore del “nostro” tanto amato calcio.

 

di Mattia Picardi (15 anni)