Una prestazione sconcertante

La Juventus è andata a Lione senza fare nulla di quello che aveva promesso.


L’andata degli ottavi di Champions League mette di fronte due squadre dalla stagione tribolata, ma comunque con scale di valori ben diverse. Questi stessi valori non si sono mostrati in campo nell’arco dei 90 minuti, e il Lione è riuscito a mettere in seria difficoltà la Juventus, che esce dalla trasferta con le ossa rotte e il morale sotto i piedi.

Piano gara

Sarri sceglie il 4-3-3 d’ordinanza, insistendo con Cuadrado in posizione di esterno destro e Dybala falso nueve libero di giostrare dove meglio crede. Il centrocampo composto da Bentancur, Pjanić e Rabiot avrebbe dovuto assicurare un palleggio costante in grado di innnescare il trio davanti. 

Rudi Garcia, invece, continua con le sperimentazioni cui avevamo accennato nell’articolo di presentazione: il tecnico ex Roma schiera l’OL con un 3-4-3 molto ambizioso, aggiungendo un centrale ma spostando il contributo degli esterni più avanti. In più, la posizione ibrida di Aouar (nominalmente largo a sinistra) ha creato non pochi grattacampi alla zona della Juventus dal momento che il giovane franco-algerino andava a sovraccaricare il lato sinistro assieme a Cornet e Danilo ne ha sofferto le sortite per tutta la gara.

Disposti con un 5-4-1 molto ordinato, i francesi hanno contenuto l’iniziativa della Juventus. Possiamo già notare i sintomi dei problemi della Juventus nella schermatura di Dembélé su Pjanić e le mezzali lontanissime: la Juve è costretta a passare dalle fasce.

Tanti problemi

Per i primi minuti di gioco, la Juventus aveva mostrato di saper tenere il campo, con un paio di cross pericolosi di Ronaldo da dentro l’area. Tuttavia, la fase di costruzione della manovra è stata a dir poco sincopata e non è mai riuscita a creare i presupposti per un attacco posizionale pericoloso. Le ragioni sono molteplici.

La prima, mortificante, è stata l’incapacità di saper trasmettere il pallone con i giri giusti. Questa scarsa applicazione è venuta per giunta dai giocatori più tecnici e meglio disposti per far progredire l’azione, ovvero Bonucci e Pjanić, autori di scelte individuali sciagurate sia dal punto di vista tecnico che – in maniera decisamente più grave – dal punto di vista tattico. Il risultato è stato un conservatorismo estremo, dettato forse da una condizione psicologica fragile, ma che è stato deleterio nel (non) creare pericoli al Lione. 

Parte del problema è stato anche l’atteggiamento dei giocatori davanti a chi era deputato alla distibuzione del pallone, tanto che in partita si è avuta la riprova dell’attitudine individualista che Sarri aveva correttamente individuato nelle conferenze passate. Le mezzali e i tre davanti hanno colpevolmente aspettato il pallone sui piedi, immobili e invischiati nella rete del Lione che ha avuto gioco sin troppo facile a contenere dei giocatori statici. Dybala è stato costretto a ricevere sempre spalle alla porta, e mai messo in condizione di puntare l’area come il ruolo gli richiederebbe (anzi, ad ogni ricezione gli erano preclusi gli scarichi e tornava puntualmente dietro il centrocampo per liberarsi della marcatura e girarsi). Tutti chiedevano la palla, ma tutti la volevano sui piedi. Rabiot e Bentancur sono stati esempi immaginifici di questa attitudine tossica, spesso posizionati a 20/25 metri di distanza da Bonucci e da Pjanić, ma anche lontani dal rispettivo terzino. Troppo facile per il Lione.

Senza palla, la Juventus ha cercato in un primo momento di attuare un timido pressing, spesso però lasciato all’iniziativa di Dybala (che ci avrà messo anche tanta buona volontà, ma il pressing solitario difficilmente porta risultati concreti). Il Lione, come avevamo accennato nella preview, è una squadra che allunga gli avversari con l’obiettivo di creare spazi e farli giocare male, e ci è riuscito perfettamente. La soluzione della Juventus di fronte a queste situazioni di gioco è stata tuttavia passiva dove invece veniva richiesta iniziativa: i giocatori hanno passato la maggior parte del tempo senza il pallone a rincorrere l’avversario, o (peggio) a portarselo in area. 

Abbiamo tutti negli occhi questo frangente in cui Pjanić scarica approssimativamente su Bonucci e il capitano guarda il pallone senza accorgersi dell’uomo che arriva (il quale probabilmente non ha creduto ai suoi occhi per l’occasione concessagli). Questi errori macroscopici non sono dovuti allo stile di gioco, ai dettami tattici, e certamente non mettono in questione le abilità dei giocatori: sono esclusivamente demoni nella testa

Vagare al buio

La Juventus non è mai riuscita a coprire decentemente il pallone, e siccome era disposta malissimo in fase di possesso è stata anche attaccata facilmente, a prescindere dalla zona in cui il Lione recuperava palla. Inoltre, Rudi Garcia aveva correttamente istruito i suoi giocatori a cercare il più possibile i cambi di campo per mettere in crisi la nota idiosincrasia della zona a difendere l’ampiezza; è stato solo a causa di numerosi errori tecnici (che danno peraltro la misura del valore dell’avversario) che il Lione non è riuscito ad impensierire la Juventus con questa strategia. 

Infine, vale la pena sottolineare come una squadra che ha nelle doti atletiche la propria arma migliore abbia avuto vita troppo facile nel far prevalere proprio l’atletismo. La Juventus era in ritardo su tutte le seconde palle, molle a contrasto, lunghissima in campo con e senza palla. In buona sostanza, è stato come dover affrontare Bolt e concedergli il vantaggio di scegliere i 100 metri anziché il calcio come disciplina.

Il secondo tempo 

Sarri ha correttamente interpretato la partita andando a togliere dal campo chi più aveva contribuito alla sciagurata performance del primo tempo. È stato sintomatico che Bentancur abbia giocato molto meglio da vertice basso piuttosto che da mezzala, ma è anche preoccupante che l’abbia fatto di gran lunga meglio di Pjanić – la cui involuzione è inquietante

Rabiot, piatto con il pallone e statico senza palla, è stato costantemente messo in mezzo al palleggio del Lione, e ha mandato alle ortiche due ripartenze promettenti per errori tecnici banali. La nota positiva, oltre all’ottimo smistamento in verticale di Bentancur, è stato il contributo di Ramsey, decisamente migliore dell’uruguaiano da mezzala nell’oscillare seguendo i movimenti di Cuadrado. Con l’uscita del colombiano e Dybala a destra, inoltre, la catena da quel lato ha ritrovato un po’ di fluidità di manovra, una manovra che spesso si era appoggiata alla capacità del colombiano di creare superiorità numerica ma che poi andava a morire sugli stinchi dei difensori avversari. 

In modo del tutto paradossale e kafkiano, la Juventus ha preso le misure del Lione solo negli ultimi 10 minuti, quando forse aveva capito che la partita le stava sfuggendo di mano e che non ci sarebbero stati eventi salvifici o deus ex machina a salvare la serata. Per ironia della sorte, è sul finale del match che la Juve è riuscita a tenere basso il Lione, schiacciandolo con una pressione finalmente armoniosa e puntuale. Tuttavia, nel calcio è impresa ardua non perdere giocando solo 10 minuti su quasi 100. 

La prestazione della Juventus continua sulla falsariga dell’ultimo mese e mezzo, in cui la squadra sembra spaesata, senza verve e soprattutto in mancanza endemica di intensità. A tal proposito, a rivedere la partita di ieri sulla base dell’allenamento a porte aperte della settimana scorsa, sembra di vedere due squadre distinte in due momenti della stagione diversi.

È scontato dirlo, ma per passare il turno serve ben altro. Serve che Sarri riesca a colmare il gap che separa l’allenamento dalla partita, che trovi soluzioni alternative ad un palleggio ristagnante, e serve soprattutto che la squadra si ricordi che la vittoria non è un diritto divino acquisito alla nascita ma un premio per gli sforzi profusi sul campo. Le somme si tireranno a giugno, ma difficilmente si faranno sconti sulla prestazione sconcertante di questa partita.

Andrea Lapegna

La Juve di Sarri: brutta senz’anima

La Juve di Lione ha inaspettatamente deluso tutti, per il risultato e per la prestazione. Inaspettatamente perché dopo mesi in cui ci siamo sentiti ripetere che in campionato la squadra si adagiava per mancanza di stimoli, dovuti agli 8 scudetti consecutivi, era solo una questione di approccio, di superficialità ma quando sarebbero arrivate le gare importanti, quelle che contano davvero, la Champions, gli appuntamenti a cui nessuno vuole mancare e tutti sognano di giocare, la squadra sarebbe stata pronta. Ecco che invece, dopo mesi di parole, il banco di prova finora più importante in stagione, viene affrontato con la solita supponenza e presunzione che contraddistingue da mesi la squadra. Tralasciando le problematiche tecnico-tattiche, l’inadeguatezza conclamata di alcuni singoli, gli errori sul mercato, gli aspetti che lasciano i tifosi sgomenti sono la mancanza di un’identità calcistica ben definita e soprattutto la mancanza di un’anima. Identità calcistica: dopo 7 mesi è grave non aver capito “di che morte voler morire“. La squadra è rimasta un ibrido tra passato e presente, Sarri deve capire che il tempo dei compromessi, dei “vorrei ma non posso” è finito. Una precisa identità ce l’hanno sia l’Atletico del Cholo, sia top club come City e Liverpool, perfino il nuovo Barca di Setien (con i suoi limiti), o il Bayern, fino ad arrivare a squadre rodate come la Lazio di Inzaghi, nuove come l‘Inter di Conte o nuovissime come il Napoli di Gattuso. Sai già come giocheranno, quali caratteristiche metteranno in mostra. Seguono tutti un filone logico, con stili e risultati diversi. La Juve di Sarri no: a volte palleggia e si imbuca, altre volte subisce la spinta altrui, a volte resta alta e riconquista palla, altre volte fa un pressing abulico, a volte gli attaccanti sono più centrali, altre volte defilati, a volte un terzino spinge e l’altro resta basso, altre volte i terzini sono schiacciati, a volte cerca l’ampiezza e gli inserimenti delle mezz’ali, altre volte nemmeno quello. Un ibrido senza identità. Con gare con tanti tiri effettuati e subiti ed altre con zero tiri in porta. Presunzione: ne ha avuta la dirigenza in estate, non programmando una campagna acquisti in linea al cambio di guida tecnica, e in inverno quando si è optato per non mettere nessuna “pezza” alle falle del mercato estivo. Errare è umano, perseverare è diabolico. Presunzione che si riflette anche su molti calciatori. Non è un mistero che Pjanic e Bonucci spesso disattendano le direttive di Sarri, quasi in modalità autogestione. Lo stesso Sarri si lamenta costantemente del fatto che “in partita i giocatori non fanno ciò che proviamo in allenamento”. Non vogliono o non riescono, in entrambi i casi gravissimo. Senza Anima: Questo è l’aspetto più sconcertante che emerge dalla squadra quest’anno. Sono troppe le partite giocate senza grinta, in modo passivo, dando la sensazione di essere scesi in campo come per far un favore al tifoso che li guarda. La Juve di quest’anno non è “Bella ma senz’anima” come poteva sembrare in alcune gare autunnali con un abbozzo di gioco ma una mancanza di grinta e tenacia, né riesce più ad essere “Brutta con un’anima”, come la squadra vincente ma contestata negli ultimi anni. Ora è semplicemente “Brutta e senz’anima”. Chi scrive ha la certezza che la Juve al ritorno ribalterà il risultato, ma ha anche la certezza che questa ad oggi è la Juve più “brutta” e con meno “anima” di questi ultimi 9 anni.

SOS Juve, alla ricerca di una soluzione

Sarà che questa juventus manderebbe in analisi gli psichiatri, ma a distanza di poche ore dal disastro bianconero in terra di Francia, noto che la maggior parte dei tentativi di trovare il perché di questa debacle lenta e progressiva dell’ultimo mese e il sunto delle dichiarazioni a caldo di Sarri, conducono quasi unicamente al seguente concetto, abbastanza banale: “La squadra non segue l’allenatore”.

Detto che vorrei sapere se davvero esistono dei professionisti (del livello dei nostri giocatori, s’intende) così autolesionisti da rovinare una stagione, il loro curriculum e l’immagine di chi li paga pur di osteggiare un’idea che non condividono, la riflessione in merito che ho fatto questa mattina al risveglio è stata “molto semplice”.
La storia ci insegna che in una società del livello a cui da qualche anno pensiamo di essere tornati ad appartenere, nel momento in cui risultasse chiaro che tra lo spogliatoio e l’allenatore ci sia una distanza tale da giustificare l’assioma del mister “non seguito”, la soluzione dei problemi applicata sarebbe sempre la stessa.

Parliamoci chiaro, abbiamo trascorso il primo quadrimestre del nuovo ciclo ad aspettare pazientemente come era normale che fosse, pur constatando alcuni limiti e contraddizioni abbastanza tangibili, e se la prima metà di gennaio ci ha illuso di aver trovato la via giusta, il bivio di Napoli a fine mese ha segnato l’inizio di un costante peggioramento della situazione.
Un’involuzione generale che trova conferma nei numeri, come le 3 sconfitte nelle ultime 5 trasferte, le sole 3 partite su 12 ufficiali del 2020 chiuse senza subire reti, i diversi tempi di gioco chiusi senza mai tirare in porta, con l’apice toccato ieri sera quando gli zero tiri nello specchio hanno riguardato l’intero match.

Sottolineo che ad oggi non solo rigetto l’idea che la risposta alle nostre domande sia da cercare nella squadra che non segue l’allenatore, ma credo che non sia ancora venuto insindacabilmente il tempo di sollevare lo stesso dal suo incarico, tuttavia non riesco a trovare cure diverse ad una malattia che, se fosse effettivamente quella diagnosticata, rivelerebbe comunque un strada intrapresa con scarsissime possibilità di tornare indietro, con l’aggravante del tempo che continua a passare.
Che poi se da un lato il tempo non è più dalla nostra parte, dall’altro l’evidenza parla di una squadra ancora pienamente in corsa su tre traguardi, con una posizione di vantaggio in coppa Italia e soprattutto in campionato in cui il calendario offre a stretto giro, ma paradossalmente nel momento peggiore, la possibilità di ridurre a una la concorrente per la volata finale, al netto del raccapriccio che suscita in me il solo lontano pensiero di essere eliminati dalla squadra attualmente ottava in classifica nel campionato francese.

Provo a pensare a situazioni complicate come la nostra attuale a parità di grandi club e di un quadro generale assolutamente non compromesso, e mi vengono in mente Benitez al Real Madrid, Ancelotti al Bayern Monaco, fino ad arrivare a Valverde al Barcellona, storia di pochi mesi fa, senza citare il celebre esempio di Villas Boas sostituito a cavallo degli ottavi di finale con Di Matteo che poi vinse la coppa, perché entriamo nel campo di una casualità pari a quella di una stella cometa.

In sostanza la palla è tutta nelle mani di Sarri, in conformità al ruolo che ricopre e allo stipendio corrisposto, perché se un medico scopre che i farmaci somministrati al paziente non danno gli effetti sperati, cambia terapia velocemente, prima che sia troppo tardi.

l Romanzo Champions nell’incubo di Lione

Torna la Champions, finalmente. Quella sensazione di eccitazione, di euforia un po’ incerta e allo stesso tempo di paura. Gli Ottavi si fanno sempre attendere un po’, poi arrivano, insieme alle partite che contano e il calendario ne mette in fila 3 in una settimana.

E’ quello per cui siamo qui, sembrano dire i giocatori alla vigilia: Dybala fa un video, CR7 si sa che c’è, l’attesa è grande, c’è fiducia; si va a Lione nel tempo del coronavirus, con una delle trasferte più facili che era possibile ipotizzare. E si torna sbigottiti, con pensieri cupi, da sogno che si trasforma in incubo.

Qualche centinaio di km e sei lì, oltralpe, nella terza città più popolosa della Francia, dove andammo già nei gironi di 3 anni fa, prima della cavalcata fino a Cardiff; fu gara complicata, con Buffon sugli scudi e un Cuadrado spacca-partite: ci speravamo anche stavolta.

La conferenza stampa dei francesi vede in scena una vecchia conoscenza, Rudi Garcia, che ha traslocato da Marsiglia verso Nord e ora fatica parecchio; non è più tempo di violini, e il tecnico francese spende parole di grande rispetto: “la Juve ha pochi difetti”, ma “nessuno è imbattibile”…e infatti.

Sarri e Bonucci si presentano ai giornalisti, il capitano dice che sono “pronti a viverlo”, questo momento, che percepisce “energie”, dice che sono “maturati” rispetto allo scorso anno ….ma poi, dopo la gara, è sempre lui che lamenta che “qualcosa non era acceso”: qual è la verità?

“Nella vita di una persona inseguire un sogno è bellissimo” aveva detto il Mister (dopo aver rimproverato il giornalista francese di aver fatto troppo pochi tamponi coronavirus); gli avevano chiesto di Rabiot, e lui a concedergli tempo e attenuanti, addirittura citando Platini: ma il tempo è stato già tanto e il francese fa una delle sue partite peggiori in maglia bianconera.

La Juve parte al piccolo trotto, un lento, inutile e stucchevole palleggio con un paio di acuti del solito CR7, ma dopo 20 minuti si spegne la luce; mentre stanno mettendo  a de Ligt un turbante chielliniano, Bentancur si improvvisa marcatore e Tousart mette un gol rocambolesco, ma che fa male, perché poi si rischia l’imbarcata. C’è da soffrire, lo sappiamo, ma soffrire così, senza gioco e senza carattere?

Poteva andare peggio dell’Ottavo di andata dello scorso anno? Nel primo tempo sì, è andata peggio; nel secondo c’è qualche motivo per essere un po’ più ottimisti: la Juve ritrova le trame e un gioco aggressivo, ma non il gol, che avrebbe sistemato le cose, come a San Siro in Coppa Italia.

Prima stecca in Champions della stagione di Sarri, serve un altro ritorno di sofferenza, sulla carta molto più facile di quello dello scorso anno. E’ una competizione così, nessuno regala nulla, non è una passeggiata: il sogno di cui ha parlato il Mister si è trasformato in rabbia, in un brusco risveglio con uno schiaffo doloroso.

“La palla ci muore tra i piedi” ha detto il Mister, e di questo, non c’è niente da fare, non ne viene a capo: un bel casino, dice un mio amico.

Doveva mettere Matuidi? Perché non Ramsey? Ed era giusto rischiare Pjanic? Ma cosa volete che ne sappiamo, noi del Romanzo Champions. Sappiamo solo che il 17 marzo, a Torino, serve un’altra battaglia, per evitare di piangere di nuovo, come sempre.