Via la retorica: solo vincere rende felici

Vincere rende felici.

Per carità: sarei felice, un giorno, di vedere Guardiola sulla panchina della Juve. Dominare i rivali, concedendo loro la palla per il 20-30%. Alla fine, ovviamente, mi aspetterei le vittorie, ma sarei davvero curioso di vederlo con noi.

Questo per spiegare che per me la ricerca del dominio in campo, in casa e in trasferta, è certamente apprezzabile, addirittura entusiasmante, ma solo se abbinata ai risultati.

“Certo, sei juventino, ovvio che la pensi così: per voi conta solo vincere”. Esatto, o quantomeno “soprattutto” vincere.

E sapete qual è il bello? Che è così pure per voi. Tutti. Poi certo, non si può dire, perché vorrebbe dire riconoscere l’amarezza provata di fronte a ogni vittoria dei rivali ricchi e brutti, mentre vuoi mettere dire “io non mi godrei quelle vittorie” o addirittura “per me abbiamo vinto noi”, tanto più in un paese in cui i media che ti prendono sul serio invece di dedicarti una risata a tutta pagina?

 

E’ così anche per voi. E ho le prove, perché vi ho visti e vi vedo tuttora.

 

Ho visto voi, tifosi romanisti, voi “mai schiavi del risultato”, esaltare Zeman, riconoscervi in lui, professarvi fieri di essere allenati da lui, il gioco, il 4-3-3 “sbrocco pe’ te”, il gioco più bello, più divertente, l’uomo inviso al Palazzo, il vento del nord, le sovrapposizioni, lo scudetto morale, il risultato può essere casuale ma la prestazione no, i gradoni, gli inserimenti di Tommasi e Di Francesco, Totti che parte da sinistra, i 4 derby persi ma poi “v’ho purgato ancora” e il 3-3 in rimonta con il 4-3 non convalidato e allora Zampa a tutto volume “te possino ammazza’, ma che m’hai annullato”. Anni meravigliosi, esaltanti, fieri, senza invidiare nulla e nessuno.

Poi è arrivato Capello, l’esatto contrario, il risultato prima di tutto, l’uomo del Palazzo. E vi ho visti felici. Come mai più nella vostra vita da tifosi. Vi ho visti impazzire, piangere, non crederci, dimenticare le tristezze, inondare le strade, colorare la città (ahimè), festeggiare per una settimana, un mese, un’estate, le canzoni di scherno, i cori, il Circo Massimo,le forbici per scucire lo scudetto ai cugini, in motorino avvolti da sciarpe, i cortei funebri per le rivali, le feste ogni sera in tutti i quartieri. Improvvisamente, la felicità.

Da lì, non vi ho più visti così felici. Quasi c’eravamo dopo il Barcellona, dopo un’altra vittoria, un passaggio del turno clamoroso, un’impresa fantastica: tutti per strada, bagni per le fontane, cori col presidente, gli occhi che non ci credono. Proprio oggi si festeggiano i dieci anni esatti senza trofei, un’eternità. E così felici, ve lo anticipo già, vi rivedrò solo quando rivincerete qualcosa (e può darsi che manchi poco, considerati i progressi straordinari in campo e fuori: applausi alla nuova Roma). Oggi, se doveste scegliere un giorno della vostra vita da tifoso, scegliereste quello.

 

Ho visto voi, tifosi interisti, voi della pazza Inter, entusiasti ad agosto, felici per i grandi acquisti, voi che “meglio perdere come vincere come voi”, voi che “ladri”, “Iuliano su Ronaldo”, “Ceccarini”, però tre mesi dopo “prendiamoci Lippi, hai visto mai?”, voi che  “Moggi ladro” e intanto lo cercavate, anche se a vostra insaputa e comunque non si può dire, voi che “è l’anno dell’Inter”, voi mani sul cuore, uno per uno, all’uscita del tunnel con il comandante argentino, voi pazzi di Recoba dopo l’esordio col Brescia, voi pazzi di Recoba pure qualche anno dopo (che mi pare più grave), voi felici con la Coppa Uefa a Parigi ma mancava ancora qualcosa, voi degli “interismi” di Severgnini, delle “Luci a San Siro” di Vecchioni (ma mica è solo vostra, eh”), delle battute al vetriolo di Bonolis, voi con Lerner e Mentana pronti a festeggiare e usciti abbacchiati dall’Olimpico, voi che comunque “Moratti è un signore”, “Simoni è un signore”, “Ronaldo è un signore”, voi che siete tutti signori, mica come quelli là.

Poi, al netto di Guido Rossi e dei primi scudetti di Mancini post Calciopoli, oltre al consueto paio di ex juventini ladri niente male, è arrivato Mourinho. Un po’ meno signore, meno “pazza Inter”, tutto finalizzato alla vittoria, anche le interistate tipo manette e “prostituzione intellettuale”, in anni in cui, semmai, di arbitri e media avrebbero potuto lamentarsi tutti gli altri, ma non lui. Serviva per vincere, per compattare il gruppo, lo faceva per quello. E chi se ne frega di Maicon + 5 (così, tipo alle feste quando ti metti in lista con vari amici) in fuorigioco a Siena, si esulta senza fine facendo vari giri di campo, vai con Eto’ che fa il terzino, tutti che si sacrificano. E chi se ne frega di come avviene il gol alla Dinamo Kiev, di come fermiamo in area gli attaccanti del Chelsea o del Barcellona, chi se ne frega se Milito è in fuorigioco all’andata col Barcellona: ancora con queste leggende sugli arbitri?

E io, vi giuro, non vi ho mai visti così felici. Pensando a noi anche quel giorno, con le magliette di Materazzi, certo, ma eravate felici, increduli, i sogni realizzati, il calcio finalmente bello come sognavate, tutti in piazza, sentendovi imbattibili. Bella cosa, la felicità, non c’è niente da dire. Perché puoi essere pazza quanto vuoi, ma i motorino li tiri quando perdi, quando vinci sprizzi gioia e oggi, se ripensi al tuo momento più felice da tifoso, non puoi che pensare a quello, regalatoti dall’allenatore più risultatista e meno “signore” che ricordi.

 

Ora, cari tifosi del Napoli, vedo voi.

Il Sarrismo, la rivoluzione, il sigaro, il possesso palla, “ho contato 47 passaggi prima del gol”, il più bel gioco d’Italia, anzi d’Europa, visto come ci fanno i complimenti? Pure Guardiola è commosso!, voi senza fatturato ma con la coralità, voi che avete pure aggiustato la difesa, voi del gol di Koulibaly al 90esimo, voi che però se la Juve vince – e come vince! – “allora basta, non gioco più”, voi che “tutto il mondo ci ammira”, che tutta Italia spera ce la facciate, “vincerà il Napoli”, “ha già vinto il Napoli”, “se lo merita il Napoli”, voi che ricordate ancora ogni 5 minuti l’unico che vi abbia fatto vincere trent’anni voi ma ora eccovi con lo champagne nello spogliatoio dopo il secondo posto, con i fuochi d’artificio dopo i primi punti allo Stadium, voi fieri di Sarri, voi che “cosa faremo senza Sarri?”, proprio voi.
Gli stessi impazziti per Ancelotti, che al gioco non pensa proprio, che i 47 passaggi di fila te li scordi, che la rivoluzione non sa cosa sia, che se arriva secondo (come due volte su due da noi) lo champagne te lo tira addosso, che è cresciuto nelle società più vincenti d’Italia e d’Europa, che “ha più Champions della Juve”.

Ma ora, oggi, ci credete tutti un po’ di più.

E non so come andrà, se vincerete voi, se toccherà alla Roma americana o all’Inter di Suning.

 

Ma so che, se e quando vi capiterà, vi vedrò felici come non siete da una vita. Piangerete, festeggerete per giorni, altro che fuochi d’artificio. Perché va bene tutto, il gioco, i 47 passaggi, i complimenti di Guardiola, le sovrapposizioni, gli inserimenti di Tommasi, la mano sul cuore di Cuper, i tiri di Recoba, ma, anche se vi hanno insegnato che non si può dire, l’unico obiettivo di una grande società non può che essere quello.

In queste lunghissime stagioni vi ho visti emozionati per una vittoria al novantesimo a Torino, arrabbiati per un gol del Liverpool, orgogliosi per un quarto posto raggiunto all’ultimo minuto e infuriati per le vittorie avversarie, esattamente come noi durante gli anni in cui non si è vinto: sentimenti vivi, forti, talvolta bellissimi.

Ma felici come quando avete superato tutti gli altri, fidatevi, non vi ho visti proprio mai.

Il Maestro Massimo Zampini

Ricordo agli ex-sarristi che ho avuto Tricella capitano

L’addio di Sarri al Napoli ha aperto tante discussioni, anche tante speranze, napoletane e non: “non dimentichiamoci mai la stagione 17/18, così come oggi tutti ricordano l’Olanda anni ‘70”. Io ho un pensiero che la massa etichetta in una certa (disprezzata) maniera, ma poco m’importa, pensiero che ho già espresso nei mesi scorsi: questo Napoli ha impensierito la Juve più del solito perché ha imparato a vincere più che a convincere nel nome dello spettacolo, discorso totalmente differente rispetto al Napoli 16/17, o anche, pur in forma minore, 15/16. Perché ritengo sia intellettualmente scorretto non ricordare la storia: Sarri ha sacrificato due delle tre teste della propria creatura per tentare di far indossare la corona alla superstite. E l’ha fatto vincendo tante partite come le vince chi bada più al sodo che al bello: guardate quante vittorie sofferte, quante in rimonta, quanti gol fatti da palla da fermo.

Poi anche quella testa residua è stata ghigliottinata, e allora si è dato il via alla ricerca dello scandalo: una volta è che si gioca prima, una volta è che si gioca dopo, una volta è che si gioca alle 12:30, una volta è che ti manca un (solo) titolare, una volta è l’arbitro, una volta è il VAR. Ce n’è sempre per tutti i gusti, tanto se sputando in aria poi ci si ritrova con una macchia bianca in testa, in pochi ci fanno caso: “questo Napoli 17/18 è come l’Olanda ‘70”, ricordiamolo sempre. Ognuno è libero di avere le idee che più ritiene adeguate, ma allo stesso modo ognuno è libero di non allinearsi alla massa: a me, per esempio, il calcio piace, piace il bel gioco, ma ho il terribile difetto che ciò che mi piace di più è vincere. E non lo dico da avvocato di Allegri (anzi!), ma da osservatore (che magari non capisce nulla) che della Juventus si è innamorato nell’era fra Platini e Roberto Baggio, quella con Tricella capitano e Zavarov, Rui Barros, De Agostini o addirittura Marocchi col numero dieci sulla schiena. Un apolide, ovvio, come gli Hamsik, i Reina, i Koulibaly, gli idoli indiscussi della – dicono – più bella squadra d’Italia.

Con il tifo più caloroso d’Italia che però sembra improvvisamente essere maturato perché prima il titolo del gioco, fermo restando quanto detto fino ad ora, era considerato anche più importante della filosofia secondo la quale “vincere è l’unica cosa che conta”, ma è bastata la firma di Ancelotti per sconvolgere anni di convinzioni: “Che ce ne fotte ‘ro calcio spettacolo, mò amma vencere!”. Così magari finalmente un giorno tutti si renderanno conto di quello che ha fatto questa Juve, anche se è chiaro che tutti lo sanno già oggi, ma immaginiamoci il primo passo falso bianconero dopo questo dominio clamoroso della Vecchia Signora: “Hai visto? Questa vittoria è arrivata contro la squadra più vincente della storia d’Italia”. La squadra più vincente della storia d’Italia: l’unica incontrovertibile realtà che sta facendo impazzire il 70% degli italiani folli per quel pallone che manda in tilt milioni di persone.

Fabio Giambò.

Sul garbato Ancelotti quando parla di Juve

Carlo Ancelotti si candida a nuovo simbolo della lotta alla Juventus. L’allenatore delle tre Champions è stato accolto a Napoli come l’uomo che strapperà il Tricolore ai Savoia, Sarri è già dimenticato. Ma, a differenza del suo predecessore, Ancelotti si limiterà a sfidare i bianconeri sul campo di calcio o trasformerà anche lui il confronto in una crociata dai richiami etici, tra buoni e cattivi? Il nuovo tecnico azzurro è un gentiluomo e anche lo scambio d’affetto reciproco con Allegri, via Twitter, di queste ore, dimostra che almeno le intenzioni di partenza sono pacifiche. Ma tra il mondo Juve e Ancelotti ci sono vecchie ruggini. E chissà che non possano riemergere…

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Quando nel ‘99, arrivò a Torino per sostituire Lippi, la tifoseria bianconera lo accolse malissimo. Per la curva rappresentava un simbolo dei rivali del Milan e della Roma, non lo aiutava l’essere giovane e il non avere un curriculum importante e, inoltre, sostituiva uno dei tecnici più amati di sempre. Ancelotti nei due anni e spiccioli non aiutò a farsi amare come tecnico. Molti ricordano che si inventò si inventò Inzaghi ala sinistra, Henry fluidificante, persino Tacchinardi ala tornante in una disgraziata serata a Manchester in cui ad inizio partita aveva invece azzeccato tutto. Quella Juventus, con Zidane nel pieno splendore, fallì in Europa, né riuscì a vincere in Italia. Va detto che le circostanze sfortunate non mancarono: il periodo più buio della carriera di Del Piero, un portiere non proprio indovinato (da parte della dirigenza) e, soprattutto, dover disputare la sfida decisiva per il tricolore giocando a uno sport diverso da quello per cui un allenatore di calcio è pagato.

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Ancelotti però è un gentiluomo: e quando i tifosi lo insultano, lui si limita ad alzare il sopracciglio. Tranne una volta, sette anni dopo la Juve, durante un triangolare estivo, quando rispunta lo striscione che lo aveva accolto a Torino nel febbraio ‘99: «Un maiale non può allenare». Per una volta non resse, sollevò il dito medio verso la curva. «Non ne potevo più», avrebbe spiegato all’epoca, secondo quanto riportato oggi da Roberto Bordi per Il Giornale. Difficile dargli torto, meno facile invece prendere per buone le parole messe nero su bianco tre anni fa nella sua autobiografia, «Preferisco la Coppa». Parole che suonano un po’ come la favola di Esopo della volpe e l’uva. «La Juventus era una squadra che non avevo mai amato e che probabilmente non amerò mai, anche per l’accoglienza che qualche mente superiore mi riserva ogni volta che torno». E ancora: «Non mi sono mai sentito a casa, mi sembrava di essere l’ingranaggio di una grande azienda. Per il sentimento, prego rivolgersi altrove. Sul lavoro tutto bene, fuori zero contatti». Infine: «Torino non mi piaceva. Troppo triste, lontana un paio di galassie dal mio modo di essere».

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Partiamo dalla città: che Napoli sia diversa da Torino non ci piove; e che si possa amare per vocazione un luogo che, pur tra i suoi difetti, è più caldo, più emotivo, per certi versi più allegro di un altro, è più che legittimo (NB: chi scrive, fiorentino, non ha mai vissuto a Torino, ma ha vissuto e lavorato a Napoli, città che ama profondamente). Per chi tuttavia ha scelto di vivere in città come Milano, come Parma, come Reggio Emilia, e che successivamente andrà anche a Monaco di Baviera, finire a Torino e poi lamentarsene è piuttosto curioso. Ma del resto, calcio e geografia fanno strani scherzi: ricordate Zidane? Doveva lasciar Torino a tutti i costi perché la moglie non poteva stare senza il mare… Alla fine si è dovuta accontentare del Manzanarre. Era quasi meglio il Po.

Sui tifosi il rapporto di antipatia, come si è detto, è reciproco, ma Ancelotti non ha la colpa di stato per primo quello antipatico dei due. Del resto, i bianconeri accolsero Allegri con glaciale freddezza, ma senza gli insulti destinati al suo predecessore; pensare che l’attuale allenatore della Juve ne aveva dette di tutti i colori contro di noi quando era al Milan, mentre nel ‘99 del povero Carletto non si ricordavano dichiarazioni al vetriolo contro i bianconeri. Né da calciatore, né da allenatore.

Ma il nuovo tecnico del Napoli parla di mancato amore per la Juve, «anche» a prescindere dai tifosi. E qui la colpa non è della Juve, ma di Ancelotti. Perché è tutta una questione di vincere e di perdere. Perché se si vince, ci si bacia, ci si abbraccia, si sorride, si brinda e si ricorda con piacere. Se si perde restano i bronci, i rancori, gli «in fondo non ci siamo mai amati». E allora se la squadra che vince per antonomasia non vince proprio quando in panchina c’è lui, allora dovrebbe capire che l’amore mancato è proprio quello della Juve nei suoi confronti, anziché viceversa. Essere stato mollato e fingere di aver mollato è un vecchio classico di ogni brutta storia d’amore, ma è un espediente che mette tristezza.

Ancelotti aggiunge anche di essersi sentito al pari di un mero ingranaggio nell’organizzatissima macchina-azienda juventina. Non gli è piaciuto, pare. Chissà, lui che è sempre stato assai bravo a farsi amare dai giocatori – gli va riconosciuto –, forse avrebbe gradito qualche coccola da parte della dirigenza, magari che Giraudo ogni tanto lo abbracciasse, che Chiusano lo invitasse a qualche serata in discoteca. Che brutta gente, pensavano che a un allenatore bastasse una società che sa imporre la propria filosofia a tutti i dipendenti, che insegna ai calciatori il rispetto, la puntualità, il senso del dovere, la dedizione alla causa. E invece gli ha dato in mano solo disciplinati soldatini col brutto vizio di vincere, tranne che con lui.

I soldatini mai, viva il sentimento. Allora non c’è miglior piazza di Napoli. Quella che il sentimento te lo dà, che ti eleva sul trono come nessun altra realtà sa fare, ma che un minuto dopo si dimentica di te: ricordate tanto tanto tanto tempo fa, un signore di Figline Valdarno sempre in tuta, che veniva narrato come il profeta del nuovo calcio Champagne, l’artefice del record di punti, il genio che faceva morir d’invidia Guardiola, il compagno di viaggio «che come nessun altro ha saputo indentificarsi con la città»? No? Ecco, a Napoli l’hanno dimenticato in un minuto. Perché anche a Napoli, o vinci come vinse Maradona, o diventi presto nessuno. Ancelotti avvisato, Ancelotti salvato: che non ci resti troppo male se le cose dovessero andar male.

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In ogni caso, Ancelotti è un signore garbato. La prossima stagione trattiamolo come un gentiluomo, da gentiluomini. E auguriamoci che anche lui resti lo stesso, in un ambiente che certo non brilla per serenità. Se poi la rivalità dovesse finire per incattivire le reciproche relazioni, allora non ci resta che augurarci solo una cosa, la stessa di sempre, quella che alla Juve riesce piuttosto bene: vincere. Noi, non loro.

Giulio Gori.