“Mi gioco tutto”, il messaggio di Juan Cuadrado

Era la seconda volta che Neko sbadigliava, eppure era quasi ora di pranzo. Non aveva chiuso occhio, aveva provato a iniziare a leggere anche un bestseller di Zafón, ma niente. La testa era altrove, in un luogo dal quale non arrivava il cenno a cui lavorava da mesi. David, mentre lo scrutava tenendo la testa schiacciata sotto il cuscino come faceva sempre da bambino, scoppiò in una fragorosa ma soffocata risata. Il risultato fu un’implosione di spruzzi salivari che raggiunse anche il comodino. Alla fine lo si sentiva soltanto più ragliare, un verso tipico di David quando sghignazzava in coda a uno dei suoi scherzi. Mentre si rotolava ancora sul copriletto giallo limone di lino, David si rese tuttavia conto di due cose: lui, portiere della Colombia quasi per caso, aveva inondato l’Hamilton Takeoff Auto Chrono che la federazione aveva omaggiato alla squadra per aver raggiunto il podio a Phoenix e, soprattutto, l’amico e compagno lo stava totalmente ignorando perché non era per nulla annoiato. Da giorni pareva anzi irriconoscibile.

 

Neko era Juan, di secondo nome Guillermo come il padre ammazzato dai ribelli quando non aveva ancora compiuto quattro anni, conosciuto nel gruppo della sua nazionale come El Cura. Il prete. Con la religione questo mite appellativo non aveva nulla con cui spartire. L’unico dei venticinque che saltuariamente biascicava vere e proprie prediche di presunta fede era Carlos e, quando ci provava, finiva di solito a schiaffi sul collo e una sorta di gara a chi proferiva l’offesa più originale.
Erano le tipiche situazioni dalle quali Juan stava alla larga, salvo poi intervenire successivamente. Con la mitezza che lo contraddistingueva.
El Cura non per niente.
Da lui correvano coloro che ne uscivano malridotti. Neko faceva, a turno, da chioccia. Solo i neoconvocati lo guardavano con riserva e diffidenza. In Juan avevano sempre visto lo spirito di chi va per conto proprio. Anarchico, egoista, a tratti eccessivo. Juan possedeva però il sorriso stampato di chi i crucci della vita li lascia sempre agli altri. Da vicino destava una certa impressione. Dimostrava dieci anni in meno. Stupiva potesse proferire parole diverse da quelle di chi sa parlare, gonfiandole, soltanto delle proprie glorie.
A curare lui ci pensavano le tre donne della sua vita. Il rimanente delle frustrazioni lo riservava a chi lo voleva affrontare uno-contro-uno sul campo da calcio. Era diventato milionario così, sforzandosi anche di imparare l’italiano e la lingua del calcio, come gli ripeteva sempre Valerio a Udine: “Questa non è una gara di macchine, Juan. Non è che tu devi sempre superare un altro. Devi metterci un cervello dentro il motore. Così nasce la lingua del calcio. È questo il passaggio più difficile”.

 

Quando David si degnò di spostare il cuscino, si sentì quasi impaurito. Era una sensazione nuova al fianco di Neko, o Juan, per tutti gli altri soltanto Cuadrado.
– Neko, non ci pensare.
Juan tirò fuori una delle due mani dalla tasca della tuta. Risuonarono alcune monete, intrappolate sul fondo della stoffa sintetica.
– Non ci pensare. Mi sembri nervoso.
Difficilmente David sbagliava quando si faceva serio. Non era il suo modo di essere, ma nessuno conosceva Juan quanto lui. E non soltanto perché erano compagni di stanza in ritiro: Ospina e Cuadrado si conoscevano dai tempi delle prime selezioni giovanili colombiane. Allora sì che erano soltanto due ragazzini. Simili e in sintonia solo perché le rispettive famiglie avevano insegnato loro come evitare di sognare e cadere dall’alto della pericolosa scala delle naturali speranze.

 

Improvvisamente, Juan scaraventò a terra tutte le monete. L’unica da duecento pesos si infilò dritta nella presa d’aria del frigobar. David si trattenne dal ridere ancora. Non era il caso di provare nuovamente a sdrammatizzare.
– Dai Neko, ti faccio compagnia. Guardiamo su Internet.
– È dal 10 giugno che vado avanti così. Mi fido di loro.
– La Juve adesso sa che potrà sempre fidarsi di te. Per cui farà come ti ha detto.
Amigo, già la prima volta fu una sofferenza. Devo molto a Lucci. Mi portò a Lecce dicendomi che Cosmi era uguale a Guidolin.
– E adesso cosa ti dice?
– Dice: ci penso io. Intanto mi gioco tutto.
– Guardiamo internet, Neko. Il suo messaggio ti arriverà quando deve arrivare.
– Mi gioco tutto.
Juan calpestò con forza la moneta tra i due letti singoli.
– Tutto, David, tutto. Sono nervoso perché Marcela, Maria Angel e Melissa sono più nervose di me. Io Conte l’ho guardato dritto negli occhi. Mi ha fatto una sola domanda. La stessa domanda di merda, anche la seconda volta. Mi gioco tutto.
Questa volta Juan Cuadrado trasse un profondo respiro. La mimica facciale assomigliava in modo preoccupante a un terzo sbadiglio, ma mancava dell’inconfondibile sibilo da cetaceo.
– Neko, pensaci. Qualcosa dovrà per forza accadere, e non c’è nient’altro che tu possa fare. Sei a Barranquilla, la città dove ti sei sposato. Hai moglie e figlia qui. Le vedrai dopo la partita. Le abbraccerai forte.
– Sì, ma io gli ho fatto una promessa dopo averla fatta a me. Se non va come deve, io resto qui. L’ho detto anche a Kanté, che mi chiede sempre. È l’unico a Londra con cui io abbia contatti.
– Guardiamo internet? Navighiamo un po’?
David afferrò il MacBook infilato dentro una strana 24 ore che quando scendeva dal pullman lo faceva sembrare il team manager invece che il numero uno della squadra. Premette un tasto e in pochi secondi aveva già attivato Google Chrome. Digitò la parola “Yuventus” e Juan non fece in tempo a rimproverarlo che sul monitor apparve un altro calciatore dalla chioma folta e dalla pelle creola.
– Vizzel? Uitsel? Mi stanno fregando!
Juan aveva il fiato corto, il nodo alla gola, la bocca secca.
– Adesso stai calmo, hai capito?
David esplose la propria voce baritonale. Dovettero però entrambi voltarsi d’improvviso verso il cellulare di Juan. Una vibrazione e un lontano campanaccio segnalarono la ricezione di un messaggio. Aveva silenziato la famiglia quella mattina, gli provocavaun eccesso di stress e nel pomeriggio doveva recuperare almeno mentalmente per la seduta di rifinitura presso il college universitario più in voga della città.

Juan Cuadrado si lanciò sul telefonino, e lesse ad alta voce:
“A posto. Ti aspettiamo per scegliere il numero di maglia. DRBM”. 11.45
Dooooonnnn.
Secondo messaggio, mentre Juan stringeva emozionato il dispositivo:
“Visto il Twitter della Juve, fratello 👹👹👹”. Mittente, Paulo. 11.47
Doooooonnn.
Cuadrado non fece in tempo ad aprire l’applicazione con l’uccellino. Il terzo, questo, era il messaggio che aspettava da due mesi. Era Lucci:
“Ci ho pensato io. A Londra non metterai più piede. Ho il titolo anche per Tuttosport: //Cuadrado è tornado!\\ 😉”.
Juan Cuadrado era felice. “Quando torno in Colombia sono sempre felice” aveva ammesso in una recente intervista. Aveva ragione. Ma stavolta era felice di una felicità che stava altrove. David capì perfettamente come era andata a finire e abbracciò forte l’amico.
– Adesso per un paio d’anni non ti voglio più sentire. Non che ogni panchina mi scrivi sul perché quell’Allegri là ha sempre ragione. È ora di dargli torto.
Dooooooonnn.
File audio su whatsapp:
“Sciaoooo cuàn! Dai che ci si diverte anche quest’altr’anno!”
Al quarto piano dell’Estelar Alto Prado finì con David che inseguiva Neko per i corridoi. I compagni uscivano dalle camere e urlavano. Era San Raimondo, ma era anche la festa di El Cura. Se la meritava, pensavano. Ma tutti si sarebbero ben guardati dal dirglielo. Loro no, le parole giuste non le avrebbero mai trovate.

*Con le Formichine ogni riferimento alla realtà NON è da considerarsi puramente casuale. La caratterizzazione personale attribuita ai personaggi rende la storia un’opera di fantasia dell’autore*